Era bellissimo. Arezzo Wave cadeva qualche settimana prima delle agognate vacanze estive ed era da sempre l’unico modo per fare una full immersion nel mondo della musica italiana e internazionale dal di dentro. Che cosa distingueva Arezzo Wave dagli altri festival? La vicinanza. Era l’unico posto in cui ti trovavi nel backstage fianco a fianco con gli artisti che di lì a poco avrebbero suonato. Una vera manna per gli addetti ai lavori: da lì nascevano contatti, a volte persino amicizie con gli artisti, che duravano negli anni. Lì abbiamo visto concerti indimenticabili. Come un incredibile Tricky nel momento del suo massimo fulgore (dopo un’intervista altrettanto memorabile fatta nel backstage nel pomeriggio) o un Moby in stato di grazia (dopo un servizio fotografico con balene e finti pesci che lui avrebbe poi usato in un suo video mesi dopo) o l’incredibile Rollins Band, un concentrato di pura potenza esplosa in una calda notte d’Arezzo. E poi e, anzi, bisognerebbe dire, soprattutto: le band italiane. Qui gli Afterhours cantarono in italiano per la prima volta, i Csi fecero un concerto a sorpresa, i CCCP scandalizzarono il pubblico con una selvaggia performance rimasta famosa: “Arezzo mi attrezzo per il tuo disprezzo”. E poi, negli ultimi anni, Jovanotti, i Verdena, l’indimenticabile concerto di Giovanni Ferretti alle cinque del mattino e tornando indietro nel tempo, cose come Charlie Albertoli dell’allora etichetta indipendente Vox Pop che mi fa ascoltare in anteprima il nuovo disco degli Afterhours che nessuna major voleva: era il loro capolavoro “Hai paura del buio” e le tante, tantissime band italiane selezionate dalle radio e dagli addetti ai lavori che offrivano un panorama interessantissimo della musica che veniva dalle varie regioni (e che tra l’altro offrivano ognuna, un grande “aperitivo rock” a cui trovarsi e socializzare). Insomma Arezzo Wave ha fatto la storia o almeno una, importantissima, parte di storia. Gli unici a non rendersene conto sembra siano state le istituzioni che gli hanno sempre reso la vita molto difficile. E noi, da esterni, non siamo mai riusciti a capire il perché. A fronte di finanziamenti dati a pioggia in Italia, l’unico festival con saldissime radici nella produzione musicale che nasce dal basso, la cosiddetta produzione “indipendente” non è mai riuscito ad avere una stabilità. Una sofferenza che, naturalmente, negli anni della crisi è diventata sempre più profonda. Potrà rinascere Arezzo Wave? Potrà tornare agli antichi fulgori? Noi lo speriamo soprattutto perché si trattava di un’esperienza di vita importante per i musicisti e anche per il pubblico che in un’atmosfera magica e informale poteva in pochi giorni fare il pieno della migliore musica italiana e internazionale. Adesso che tutto o quasi nasce (e muore nel giro di poco tempo) nel mondo virtuale dei talent, quella di Arezzo Wave rimane un’imprescindibile esperienza umana a cui è difficile rinunciare.
Luca Valtorta – La Repubblica XL