Non vedevamo il confine ma all’improvviso davanti al furgone apparve un gruppo di soldati in mimetica. Armi in pugno e facce di chi ha visto la morte, ci fecero segno di rallentare sul ciglio di quella strada dissestata che attraversava le montagne della Bosnia. In un attimo smettemmo di ridere e scherzare come avevamo fatto fin dall’inizio di quel viaggio, evocato e convocato, poi in qualche modo pure organizzato da Mauro Valenti. E chi sennò? Mi aveva chiamato la sera tardi, un paio di giorni prima. “Ho letto il tuo libro-reportage sulla guerra e la musica nella ex-Yugoslavia: vuoi venire con noi a Tuzla? Stiamo per organizzare un festival come Arezzo Wave, ma in Bosnia…”. Ovviamente, questo è un breve riassunto di una telefonata lunghissima, anzi di un monologo ininterrotto in puro stile Valenti. La risposta fu semplice: “Ok, ci vediamo al porto di Ancona”. Da lì, in nave fino a Spalato e poi attraverso le montagne, da quel primo posto di blocco a tutti quelli che avremmo incrociato nella settimana successiva, rimbalzando tra Sarajevo, Mostar e Tuzla, appunto. Finii per tornarci da solo, più volte:ero quello che doveva provare a convincere le band bosniache a partecipare al nostro progetto. Un festival di pace nel difficile dopoguerra bosniaco. La musica come dialogo. La musica come cura. Con la passione e l’abnegazione di quello che stava già diventando un amico importante. Un ragazzo diventato uomo conservando l’entusiasmo di un bambino. Mauro. Ovvero Arezzo Wave, festival nato e cresciuto con lui, come lui. Nel nome dell’amicizia.
E pensare che i precedenti non erano stati entusiasmanti. La prima volta che incontrai Mauro era stata nell’estate del 1990 fuori da un club di New York dove la mia band, Negazione, inaugurava il suo tour americano. Arrivò quando il nostro concerto al Pyramid era appena finito e ci chiese di prestargli i soldi per pagare il taxi, ché aveva perso il portafogli. Credo che lo facemmo. Poi lui sparì. Lo rivedemmo un anno dopo quando, finalmente invitati a suonare ad Arezzo, fondemmo il motore del Ford Transit su cui viaggiavamo da Torino e riuscimmo ad arrivare appena in tempo per salire sul palco. Decisi comunque a “spaccare tutto”, ma l’unica cosa che si spaccò fu il palco, esattamente nel punto in cui atterravo dopo un salto, basso in mano, facendomi precipitare con una gamba in quel buco improvviso, prima di riprendere a suonare. Illeso e incazzato. Quando Mauro venne nel nostro camerino a scusarsi dicendo che in fondo su quel palco ci aveva suonato pure Joan Baez credetti che fosse abbastanza folle da meritare qualcosa di meglio dei cazzotti che mi ero riproposto di dargli. A noi, hardcore band che da otto anni e quasi mille concerti metteva a ferro e fuoco club e posti occupati di tutta Europa e pure un po’ di America, veniva a parlare di Joan Baez?
Eppure, pochi anni dopo, mi sarei ritrovato a bordo di quel furgone in mezzo a soldati e montagne. Poi coinvolto, partecipe e complice del sogno di un festival nella città più multi-etnica di Bosnia. E ce la stavamo pure facendo a realizzarlo, se non fosse iniziato un altro conflitto, questa volta in Kosovo, facendo così sfumare Tuzla Wave. Ma altre sono poi state le occasioni cercate e create per il festival di Mauro e dei suoi amici. Ad Arezzo e a Livorno, poi anche a Lecce: incontri, invenzioni, idee, collaborazioni, consigli, aiuti, libri, calcio, racconti. Amicizia soprattutto.
Perché la musica se lo vuoi davvero non ha confini e nemmeno il nostro innato, dolce e selvaggio desiderio di libertà. E chissenefrega dei taxi di New York e dei palchi di Joan Baez: Mauro è una persona speciale e un amico prezioso, Arezzo Wave molto più che un festival: un’esperienza che dovrebbe essere patrimonio dell’Unesco e le persone che ci sono passate, per una sera o per una vita intera, lo sanno. Il resto è una storia grande, oppure piccola come questa.
Marco Mathieu, giornalista e scrittore (ex bassista dei Negazione)