I Dagomago, Best Arezzo Wave Band 2015, venerdì 16 ottobre hanno rappresentato il nostro Paese e la musica emergente italiana al CMJ Music Marathon di New York – l’appuntamento americano punto di riferimento della musica indipendente internazionale; il gruppo si è esibito al Fat Baby di New York.
Ecco la terza parte del loro diario di bordo “Pirati a New York” scritta dopo l’esibizione al CMJ!
Dice che la Broadway taglia Manhattan in due. Dice che quando Warhol è stato a Napoli è stato lui a suggerire il nome Spaccanapoli alla strada che divide a metà la città partenopea.
Ce lo racconta Davide, mentre attraversiamo New York trasportando una tastiera affittata che sta dentro ad un enorme baule che pesa più della tastiera stessa. Andiamo a prendere i pass. E un caffè, che ne abbiamo bisogno, perché qui bisogna muoversi e in fretta. Tutto è lontano e ci vuole tanto tempo per fare le cose. Questo posto ti mette alla prova, da subito, appena arrivi e l’energia dell’umanità ti si scaglia contro come un camion dei pompieri in corsa.
Nessuno ti caga veramente da queste parti, perché non sei nessuno, fondamentalmente. Come il tecnico del suono al Fat Baby, il locale dove abbiamo suonato: gli abbiamo fatto una domanda e lui semplicemente non ci ha risposto. Non si può dire che la gente sia scortese. Semplicemente tu non esisti, come loro non esistono. Sono singoli individui solitari che cercano un posto nel caos.
Andiamo a suonare. Siamo emozionati e un po’ nervosi: è il fatto di trovarsi sperduti in un luogo che è nella storia della musica e di rendersi bene conto che non siamo nessuno. Questo ti aiuta a restare focalizzato, a guardare bene i tuoi obiettivi e a sentire forte dentro l’anima delle cose che vuoi dire e raccontare. Siamo carichi, perché finalmente è arrivato il giorno e il momento di salire sul palco.
Ci sono quattro progetti svizzeri prima di noi. Loro hanno affittato tutti gli strumenti, ogni cosa, e hanno riempito il locale di grossi bauli rossi. Ci hanno lasciato usare la loro batteria e ci hanno anche aiutato durante il cambio palco. Il palco è piccolo, così come il locale. Piccolo e marcio. Vecchio. Ma c’è un calore interessante, un’atmosfera unica, si potrebbe dire. Come in tutti questi localetti newyorkesi, si sente male e l’impianto è spinto al massimo, e il pubblico è stretto e stipato tra il bancone, qualche divanetto e il palco di fronte. Saliamo sulla scala di emergenza che abbiamo trasformato in camerino. Ci mettiamo le nostre camicie hawaiiane e andiamo.
Succede tutto davvero in fretta, da non rendersene conto. Un ragazzo ci lancia un dollaro sul palco. È già ora di scendere. Ci sono altri due gruppi dopo di noi. Siamo abbastanza su di giri e restiamo, come siamo soliti fare, fino alla fine della serata. Per parlare con la gente, assorbire l’ambiente, accumulare ricordi. L’ultima band suona un rock piuttosto classico, ma con una buona attitudine. Si vede che si stanno divertendo. Il chitarrista salta come un folletto ubriaco sopra alla cassa della batteria, piegando il legno. Alla fine svuotano il palco e distribuiscono gli strumenti al pubblico.
Luca suona un timpano con le mani in mezzo alla sala. E poi prende il microfono fingendo di intervistare gli avventori, intimiditi e impreparati. Ridiamo come matti. Francesco, un amico biellese che suona il basso da paura e vive a New York da nove anni ormai, ci accompagna a mangiare qualcosa.
Torniamo verso Brooklyn su una macchina di Uber carica all’inverosimile. Passiamo sul Manhattan Bridge, di fronte allo skyline, e restiamo a bocca aperta. Le luci ci scorrono sugli occhi, lasciando una scia, come in quelle fotografie notturne sovraesposte. L’America ci dà un’altra buona notte, parlandoci forte nell’orecchio, dicendoci che è tutto figo, che è tutto bello: “Cool”, “Awesome”, “Amazing”. Ma è quando la gente non si capisce bene che è tutto figo, e che non ci sono sfumature. Noi siamo europei, con la polvere sulle spalle e ci va anche di guardare dall’altra parte, dove è un po’ più buio e si spengono le luci.
Goodnight.
Dagomago